SVILUPPARE NARRATIVE PER UNA COMUNITÀ ACCOGLIENTE
Uscire dall’ordinario per una nuova politica dell’umanità
Siamo “profondamente le situazioni nelle quali viviamo”[1], un incrocio di storie nelle quali esercitiamo più parti: un giorno spettatori, altre volte protagonisti, altre ancora sceneggiatori. In ogni caso siamo volenti o nolenti parte di un sistema in grado di ispirare più o meno intenzionalmente la nostra opinione e di orientarci nei pensieri e nelle scelte. All’alba della tanto agognata uscita dalla pandemia possiamo decidere di ascoltare i racconti di questo difficile anno, soprattutto dalla voce di chi ha avuto un ruolo attivo. L’esperienza di distanziamento fisico ha rappresentato una sfida per tutti i progetti e gli interventi che hanno messo al centro il lavoro di comunità e soprattutto il desiderio di sviluppare accoglienza. La minaccia dell’altro, potenziale portatore di un virus pericoloso e immateriale, ha scatenato l’esigenza di ricercare incessantemente un “colpevole” visibile, per restituire senso e soddisfare l’illusione di controllare le situazioni. Nel più complesso rapporto tra individuo e collettività, l’esperienza di molte persone ha restituito un segnale importante, dove il ruolo di cittadini e operatori ha reso evidente l’autenticità dell’homo cooperans[2]: un’immagine spesso fortemente messa a dura a prova dall’informazione mainstream e dai messaggi evocati dai principali media, che cercano di risolvere la sfida dell’integrazione adottando soluzioni spesso semplicistiche e parziali. Superare una narrativa effimera, sovente ancorata ad un passato per molti seducente, ci spinge a progettare nel presente e nel futuro azioni e pensieri in grado di accompagnare le persone verso storie differenti.
In questo virtuoso incontro un obiettivo sicuramente importante nel periodo post-covid sarà quello di costruire una “politica dell’umanità”, così come evocata dal filosofo Edgar Morin[3], capace di “inglobare e non sopprimere le diverse civiltà” e di portare al centro ciò che ci accomuna veramente, ossia l’appartenenza al comune genere umano. Abbiamo così necessità di ascoltare e generare racconti che ci aiutino a congedarci dal cosiddetto “mondo ordinario” in cui abitualmente viviamo, fortemente noto a chi si occupa di raccontare o scrivere storie[4]. È la “zona di conforto” dove ci abbandoniamo alla tradizione, alla consuetudine e alla difesa instancabile delle nostre pratiche, avvertendo qualsiasi prospettiva di cambiamento come una minaccia ad un’identità da difendere. Per farlo dobbiamo innanzitutto riconoscere queste resistenze, nominarle e accompagnarle dolcemente verso nuove direzioni. Un processo sorprendente e faticoso, specialmente per chi si trova ogni giorno ad affrontare la sfida dell’accoglienza, tra le roboanti pagine dei principali quotidiani e il prevalere dell’opinione pubblica. Nell’affrontare queste sfide, le esperienze di operatori e volontari hanno raccontato durante questo periodo narrative capaci di far emergere una visione meno cinica e cupa dell’umanità, portando in evidenza la sua capacità empatica e pro-sociale.
Nuovi occhi per un viaggio nel possibile: “7 alleati” per promuovere accoglienza
Lo sviluppo di comunità è un approccio che non si esaurisce nella messa in atto di strumenti e tecniche, ma che riscopre fortemente il desiderio di agire con “metodo”, accompagnandoci nel cuore della sua etimologia[5].
Sviluppare comunità significa infatti mettere in campo la possibilità di “imboccare un cammino” insieme alla gente, per affrontare il tema dell’accoglienza facendo tesoro degli imprevisti incontrati sul percorso. Un processo che richiede impegno e responsabilità collettiva, ma che necessita anche di lasciare spazio alle motivazioni, alle idee e soprattutto al senso del possibile di ciascuno.
Ed eccoci sulla soglia, davanti alla scelta di compiere anche noi il faticoso “viaggio dell’eroe” attraversando un mondo straordinario che, proprio per sua definizione, è abitato da incertezze più che da sicurezze, ma che può contare su validi “alleati” per affrontare il percorso. Proviamo pertanto a tratteggiarne alcuni, immaginando che possano essere da stimolo per nuove idee e processi progettuali.
1. Rendere sensibili i territori: allestire contesti di confronto e di scambio di narrative
“Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”. Antoine de Saint-Exupéry, in questo celebre ed evocativo aforisma invita ad una visione semplice, ma allo stesso tempo coraggiosa. La cultura dell’accoglienza, spesso immersa in una prospettiva orientata all’azione, ha bisogno di essere innanzitutto pensata e confrontata.
I diversi studi sulla promozione del contatto sociale mostrano quanto non sia sufficiente abitare in un quartiere multietnico per affrontare i pregiudizi, ma come sia importante allestire situazioni in cui poter mettere in moto la celebre “ipotesi del buon contatto” studiata da Gordon Allport[6], attraverso la pazienza, il tempo e soprattutto il dialogo. I setting formativi e concertativi rivolti alla comunità possono essere dei buoni alleati, capaci di evocare anticorpi sociali attraverso diversi codici e linguaggi. Per questo è importante allestire occasioni di dialogo e confronto con gli abitanti, ad esempio di una medesima via o di un quartiere, prima e dopo l’arrivo di nuove persone, per potersi confrontare attorno ad eventuali timori e fare gradualmente esperienza del valore generato dall’incontro.
Ciò significa dotarsi di una passione interessata alle storie, alle preoccupazioni e alle sfumature della vita delle persone. Nel contempo, come operatori, sarà importante allenarsi alla convinzione che il cambiamento sia possibile ascoltando anche le paure di chi accoglie e aiutando a trasformare i loro dubbi, grazie alla visibilità e alla partecipazione ai racconti di vita di chi arriva. Storie “alla luce del sole”, non solo per gli addetti al lavoro, che abitano i luoghi frequentati quotidianamente dalla comunità. Antologie potenti, ricche di vitalità e di intricati labirinti spesso faticosi da percorrere. Incontrare l’altro vuol dire far proprio quello che si ascolta, accogliere la tensione e l’incoerenza, i nostri pregiudizi, che necessitano di essere nominati e affrontati. L’ascolto di storie e la partecipazione attiva sono processi che incidono fortemente sulla mente umana e sulle relazioni. Come citato dallo scrittore Will Storr, studioso del rapporto tra narrazione e impatti cerebrali, “il trasporto narrativo prima cambia le persone, poi cambia il mondo”[7]. Da ciò deriva un modo diverso di guardare alla propria famiglia, al proprio vicinato, fino al mondo intero. Un “racconto comunitario” che offra consapevolezza non solo di un patrimonio valoriale, quanto del coraggio e del senso di universalità che persone e gruppi hanno dato vita per mettere in risalto l’umanità.
2. Trasformare i bordi sociali e geografici
Il sociologo Richard Sennet, in uno dei suoi più recenti volumi[8], esorta a sostituire il concetto di confini con quello di “bordi”, più incline ad enfatizzare il carattere “poroso” delle diverse identità, capace di promuovere interazione tra gruppi diversi. L’appartenenza è un processo importante nel rafforzare senso di comunità, che necessita di essere alimentato e monitorato, per mantenere un giusto equilibrio tra frammentazione dei legami ed eccessiva difesa di un patrimonio narrativo. La promozione di legami “bond” (bonding social capital), così come illustrato dal sociologo americano Robert Putnam[9], aiuta ad alimentare un senso del noi che richiede tuttavia di essere completato da connessioni che svolgano un ruolo “ponte” (bridging social capital) con altri soggetti appartenenti a mondi contigui o distanti.
I nuovi arrivati possono così essere invitati in un “comune condiviso”[10], che non si esprime nell’assimilazione ad una cultura preesistente, ma nella possibile costruzione di nuovi riti e tradizioni. Il mondo simbolico, casa dei significati e dell’intellegibile, è uno spazio decisivo nel determinare le scelte e gli atteggiamenti delle persone. La riflessione di François Jullien[11] ci invita a non procedere tanto per distinzione dall’altro, quanto nel porsi a confronto mantenendo viva e frequente la volontà di esplorarsi reciprocamente. Ad esempio facendo attenzione all’uso delle nostre espressioni quotidiane, spesso scontate e radicate nel nostro patrimonio culturale, che diventa particolarmente evidente nello straordinario incontro con altri modi di intendere e vedere il mondo sociale. Curare i bordi significa inoltre apprezzare il plus generato dall’incontro tra culture, in grado di creare appartenenze, riti e cicli celebrativi inediti.
3. Avvicinare i mondi attraverso la semplicità e la quotidianità
L’esperienza della pandemia ha confermato il potere della spontaneità, valorizzando la capacità delle persone di incontrarsi e di mettere in moto forme autonome di reciprocità e di attenzione. Il tema del volontariato episodico[12] esplorato in questi anni, evidenzia la necessità di riconsiderare l’attivazione delle persone, attraverso strategie che coinvolgano anche i soggetti non appartenenti ad enti formalizzati, rimettendo al centro la semplicità del vivere quotidiano e gli incontri tra persone che abitano i medesimi luoghi. Come organizzazioni abbiamo però necessità di valorizzare questo patrimonio, trovando modalità per non disperderlo, ma soprattutto spogliandoci da un atteggiamento spesso fagocitante, che impone più o meno consapevolmente un’attesa di affiliazione che molte persone non sono disponibili a confermare.
4. Divergere l’attenzione sulle competenze e le passioni
L’impegno delle persone si anima spesso dalla motivazione ad affrontare un problema comune o dal desiderio di creare occasioni in cui poter sperimentare benessere. In questo senso diventa importante riscoprire il “divertimento” nel suo significato originario, ossia quello di “guardare altrove”, per vedere l’altro con occhi differenti. Partire da ciò che le persone sanno fare e pensano di poter mettere in comune con altri è un modo per dare vita a questa straordinario moto divergente, facendo esperienza di un potenziale positivo emergente non solo dalle risorse di una singola persona, ma della sua capacità di trasmettere motivazione anche ad altri.
Recuperiamo così quell’aspetto tipico dell’homo ludens[13], diventato negli anni il nemico della serietà e confinato nel patrimonio infantile della nostra vita. Fare un’esperienza divertente significa quindi scatenare la creatività e la spontaneità, riscoprendo il lato piacevole della vicinanza con gli altri.
Emerge pertanto il ruolo imprescindibile dei “passion keepers“, persone che nella collettività sono detentori di un potere attrattivo, impregnati di una virtuosa energia emotiva e che necessitano, insieme ai più tradizionali “stakeholders”, di essere conosciuti e raccolti nella mappatura di una comunità.
5. Riscoprire l’impegno politico personale e collettivo
Come evidenziato dal filosofo Roberto Esposito[14] il dibattuto degli ultimi decenni ha generato uno scollamento sempre più netto tra politica e società, creando due poli culturalmente inconciliabili per le persone. Occuparsi di lavoro sociale richiede di recuperare la sua connaturale funzione politica, capace di ispirare “la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica”[15]. La creazione di una comunità solidale ha bisogno di non trascurare il coinvolgimento di istituzioni, organizzazioni, enti su un piano il più possibile orizzontale, avendo anche cura di mirare ad includere i nuovi arrivati nei processi di partecipazione. Rafforzare la collaborazione sociale significa provare ad uscire dai propri confini organizzativi, per dare vita a qualcosa di inedito, che superi la somma delle singole parti: un nuovo progetto, un patto condiviso, un brand cmune.
6. Programmare occasioni di scambio di pratiche
Gli interventi di promozione dell’accoglienza mettono in gioco una potente componente motivazionale, soprattutto tra gli operatori professionisti e volontari, che li coinvolge emotivamente e mentalmente. È per questo che occorre avere cura di queste energie, affinché non si esauriscano e non si disperdano a causa di esperienze estenuanti. Un metodo per tutelare questa vivacità è la programmazione di momenti di confronto, di contenimento e rivitalizzazione di prassi, mirato anche alla ridefinizione di un senso civico collettivo. La condivisione di questo patrimonio può dare origine ad una “comunità di pratica”[16], uno spazio laboratoriale volto a far emergere senso, significati e possibili ulteriori connessioni nel contesto operativo.
7. Formare professionalità capaci di avvicinare
Un ultimo “alleato” per la promozione dell’accoglienza è l’introduzione di figure formate ad un approccio di comunità, che superi l’iperspecializzazione professionale, appellandosi a contributi di diverse discipline. Dalla gestione dei rapporti di rete, alle capacità di comunicazione interpersonale e pubblica, alla conoscenza legislativa e ai fenomeni interculturali. Sono “competenze di prossimità”, capaci di sintetizzare punti di vista e avvicinare linguaggi espliciti e impliciti, per poter agire in un territorio e collegare mondi personali al contesto collettivo. Le competenze di ascolto sono spesso nominate e pretese, svuotate sovente del loro significato più autentico. Ascoltare l’alterità è tuttavia un’arte che richiede allenamento e che si rafforza attraverso il coraggio di lasciare spazio nel mondo personale e collettivo. Secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han “senza prossimità, senza ascolto non si forma alcuna comunità”[17]. Il nuovo curriculum avrà necessità di essere arricchito da competenze che superano la sola capacità di connettere, per costruire un rapporto più appassionato, paziente e incuriosito all’altro.
Un viaggio orientato al futuro: approfondire lo spazio dell’immaginazione
Questi sono solo alcuni degli ingredienti che possono restituire senso e movimento ad un “viaggio” intenso tra provenienze. Maturare è un processo collettivo che richiede però di chiarire insieme i nostri obiettivi di cambiamento e di radunare più sguardi per poter poi tracciare i sentieri (cosa significa evolvere o trasformarsi per la nostra comunità? Sentiamo viva questa attesa? Dove ci piacerebbe (o sentiamo importante) tendere? Con chi?). È quindi un progetto ad ampio respiro, che riguarda la comunità nel suo complesso e che sarà virtuoso se saprà mettere in mostra la passione per il futuro dell’umanità.
Riferimenti bibliografici
[1] Benasayag, M., Schmit. G. (2003). L’epoca delle passioni tristi. Milano: Feltrinelli.[2] Bregman, R. (2020). Una storia (non cinica) dell’umanità. Milano: Feltrinelli.
[3] Morin, E. (2020), Cambiamo strada. Le 15 lezioni del Coronavirus. Milano: Raffaello Cortina.
[4] Vogler, C. (2010). Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e cinema. Roma: Dino Audino Editore.
[5] dalla parola greca methòdos (μέϑοδος), a sua volta composta dalla particella «mèta» (μετα) che indica “superamento” e dalla parola «hodós», cioè “cammino”, “via”.
[6] Allport, G. W. (1954). The nature of prejudice. Cambridge USA: Addison-Wesley.
[7] Storr W. (2020). La scienza dello storytelling. Come le storie incantano il cervello. Torino: Codice edizioni.
[8] Sennet, R. (2018). Costruire e abitare. Etica per la città. Milano: Feltrinelli.
[9] Putnam, R.D. (2000). Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community. New York: Simon & Schuster.
[10] Julien F. (2016). L’identità culturale non esiste. Torino: Einaudi.
[11] Ibid.
[12] Meneghini, A. M., Morgano, A., Stanzani, S., Pozzi,M., Marta, E., Lenzi, M., Santinello, M. (2016). Il volontariato episodico per grandi eventi e i volontari a Expo Milano 2015 Volontariato post-moderno. Da Expo Milano 2015 alle nuove forme di impegno sociale. Milano: Franco Angeli.
[13] Huizinga, J. (2002). Homo ludens. Torino: Einaudi.
[14] Esposito, R. (2021). Istituzioni. Milano: Feltrinelli.
[15] Definizione tratta da Dizionario Treccani
[16] Wenger, E. (2006). Comunità di pratiche. Milano: Raffaello Cortina.
[17] Han, B-C. (2017). L’espulsione dell’Altro. Milano: Nottetempo