TRASFORMARE INSIEME I PROBLEMI
In questo ultimo appuntamento con le tecniche di collaborazione sociale proponiamo uno strumento utilizzabile nella sua duplice forma di modello «processuale» e dispositivo «procedurale». Alla base di questa scelta vi è la constatazione che una parte rilevante delle policy e dei programmi sociali è fondamentalmente orientata ad affrontare problemi (disagio, povertà, esclusione, dipendenza, violenza, solitudine, etc.). Il modo e le forme in cui questa complessa attività viene organizzata e condotta risulta decisivo rispetto all’efficacia dell’intervento. In coerenza con l’approccio che contraddistingue questa serie di contributi riteniamo che la prospettiva (teorica e tecnica) del Collaborative Problem Solving mostri diversi motivi d’interesse e attualità. Prima di addentrarci nella descrizione dello strumento è importante chiarire alcune questioni di fondo che ruotano intorno al concetto di «problema», un’espressione che utilizziamo quotidianamente, sia nella sfera personale che nella vita pubblica, ma il cui significato non possiamo dare per scontato. Da un certo punto di vista potremmo descrivere l’intera l’attività umana come una continua ricerca di soluzioni a problemi, piccoli o grandi che siano. Per semplicità possiamo parlare di problema nel caso in una situazione nella quale un soggetto (individuale o collettivo) avverte una difficoltà e/o una mancanza che è motivo di disagio e/o di insoddisfazione. Così descritti i problemi si presentano come fenomeni relativi e soggettivi, in un duplice senso: poiché implicano la presenza di soggettività umane che li qualifichino come tali (“c’è un problema quando qualcuno avverte una determinata situazione come problematica”); perché chiamano in causa l’esistenza di molteplici visioni a riguardo (“la stessa situazione può essere avvertita come problematica da qualcuno e non problematica da altri”). Detto in altri termini sono problematiche le situazioni che s’intendono modificare rendendole (quantomeno) accettabili
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