DAR CASA AL TEMPO FRAGILE

Ennio Ripamonti, Letizia Espanoli
Editore: Editrice Dapero

La casa non è solo un edificio

Tutti abbiamo bisogno di una casa, ci ricorda Ennio Ripamonti in questo bellissimo racconto sull’esperienza del centro residenziale Abelardo Collini di Pinzolo. Casa non è solo un edificio, ma un termine che nel significato etimologico più profondo rimanda a un’idea di sicurezza, di intimità, di appartenenza. Quando si parla di strutture residenziali per gli anziani spesso l’immagine che viene in mente è quella di uno spazio asettico, impersonale, dove ci si prende cura delle malattie e delle non-auto sufficienze, e meno delle persone. Eppure non sta scritto da nessuna parte che un luogo di cura non possa essere una casa. Certo una casa particolare, in cui si va ad abitare per necessità, raramente per scelta. Un luogo dove le persone devono essere curate e assistite, perché le loro condizioni richiedono cura e assistenza. Ma anche uno spazio in cui gli elementi tecnici e specialistici non esauriscono la dimensione della relazione e del riconoscimento delle identità e delle storie individuali dei suoi abitanti.

immaginare i servizi che si vorrebbero per sé

La storia del centro Abelardo Collini racconta di un percorso durato anni, in cui giorno dopo giorno si è cercato di costruire un modo nuovo – e al tempo stesso antico – di interagire con la vecchiaia e con la disabilità. Un modo che si basa sulle più avanzate metodologie di personalizzazione delle cure, sulla sperimentazione di modelli di avanguardia di umanizzazione dell’assistenza, sulla ricerca di tutto quanto di nuovo veniva messo a disposizione per assistere le persone fragili riconoscendo la loro storia e la loro identità. E insieme qualcosa di più profondo e radicato in un mondo di valori lontani, un lavoro che si basa sul riconoscimento del valore della vita umana, sull’accettazione che l’esistenza ha le sue fasi, alcune più ricche e spensierate altre più lente e faticose, ma che anche il momento in cui ci si avvicina alla fine – come scriveva il grande poeta romantico Friedrich Hölderlin – deve essere «sacro e sereno». Il principio guida dell’organizzazione del centro si basa su uno slogan tanto semplice, quanto potente: immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. Perché se si costruisce una struttura per accogliere persone anziane in una fase difficile della loro vita, cosa potremmo fare in fondo altrimenti di realmente importante? Ma immaginare un servizio che ogni persona vorrebbe per sé non è facile: serve competenza, attenzione, sensibilità. E forse non basta ancora. Forse è necessario anche avere coraggio di seguire convinzioni e valori in un mondo che magari rema troppo spesso in direzione opposta. Ripamonti racconta, con un linguaggio sempre attento alle sfumature, di come sia stato possibile tenere insieme una concezione tecnico specialistica delle cure con una più umana e relazionale, costruendo un modello di cura unico che unisce professionalità e umanità, specializzazione e rispetto, gestione e visione strategica di cosa le strutture residenziali per anziani potrebbero e dovrebbero essere.

Sentirsi parte di qualcosa

Pagina dopo pagina prende forma e si sostanzia una magistrale descrizione di cosa è stato fatto, di come sono svolte le attività, di quali strategie e modelli sono stati introdotti e istituzionalizzati per compiere una rivoluzione silenziosa nel modo di assistere e di curare gli anziani non più autosufficienti in un modo tale da dare dignità alla fase più difficile della vita umana. Questo racconto vuole essere una testimonianza di cosa è stato realizzato, affinché si conosca quello che è stato costruito anche andando oltre ciò che poteva essere inizialmente immaginato. Ma il testo di Ripamonti non è in realtà solo questo. La storia del centro Abelardo Collini è anche un orizzonte, perché traccia in modo indelebile una traccia di come un modo diverso di stare vicini ai grandi anziani sia possibile. Come ogni persona, anche gli anziani al fine della loro vita hanno bisogno di una casa, di sentirsi parte di qualcosa che riconoscono come un ambiente vitale; di relazioni, di riconoscimento, di stima, non solo di cure tecniche e assistenza. E la sfida futura dei centri residenziali è quella di diventare non solo ambienti tecnici dediti all’assistenza specialistica, ma anche case, perché nessuna persona può vivere dignitosamente in un luogo in cui non si sente parte. Serve un luogo in cui la persona possa vivere la propria intimità e possa dire: «sì, in fondo, anche nei momenti meno felici della mia vita, sono stata ancora bene».

Luca Fazzi (Università di Trento)