REINVENTARE IL VILLAGGIO/1: Contro-narrative per scuotere la stasi e ricominciare a sperare

Davide Boniforti
Editore: Metodi

“Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” (proverbio africano)

 

Vivere tra tensioni narrative: scarsità, microbolle e performance

La collettività ci attraversa nelle sue svariate forme. Fisiche, simboliche, valoriali. Percorre il tempo e lo spazio tre le pieghe di numerosi contrasti. Sentiamo di non voler (e non dover) essere da soli nella gestione di problemi complessi, ma allo stesso tempo litighiamo con un ventaglio di limiti che si apre nella nostra quotidianità, spesso (anche se non frequentemente lo ammettiamo) appesantiti proprio dalla presenza degli altri. Attraverso parole, immagini, simboli, non sempre evidenti, generiamo una serie di tensioni narrative che dirigono più o meno consapevolmente il nostro modo di rappresentare il mondo. Percepiamo spesso la sensazione del “venir meno” oppure del “sentirsi stipati” da qualcosa o qualcuno, navigando tra contraddizioni e sentimenti contrastanti. Tra questi ritroviamo l’ineluttabile senso di scarsità, come tematizzato dai ricercatori Eldar Shafir e Sandhil Mullainathan nel loro volume “Scarcity”: denaro, possibilità, relazioni e soprattutto tempo. Aneliamo all’essenzialità, ma riconosciamo che la frenesia e la complessità dei nostri giorni consuma inesorabilmente il tempo che contiamo di avere a disposizione. Tanto che alcuni autori di fantascienza lo hanno considerato come una fonte di intensa preoccupazione nei loro racconti distopici, capace di generare forme di disuguaglianza e di rapacità sociale. Dal film “In time” di Garrett Bradley, sino al più recente “Paradise” di Boris Kunz, lo spettatore è proiettato in un futuro prossimo, dove il tempo diventa una preziosa merce di scambio, evocando la leggendaria brama umana di poter vivere per sempre anche a discapito degli altri. Questo senso di restrizione, o di affollamento temporale, è accompagnato da una seconda narrativa. Noreena Hertz, in un suo recente volume, descrive l’inquietudine di un periodo “post-covid” aggravato, oltre che dalla pandemia, anche da numerosi fattori disgreganti che negli ultimi anni hanno alimentato nuove abitudini a svolgere pratiche in forme più o meno isolate. Il racconto della fragilità del senso di comunità abita e polarizza i pensieri di molte persone, fino a spronare alcuni studiosi a pensare anche provocatoriamente che il concetto di comunità sia esso stesso una narrativa attualmente consumata e superata, immaginando che sia giunto il tempo per individuare nuove e ulteriori forme e denominazioni dallo stare e agire collettivo (Lavanco, 2018; Niessen 2023).

Ad alimentare questa contrazione della rete relazionale è il mito prestazionale, che percorre in maniera prorompente il mondo mediatico, anche attraverso i programmi di intrattenimento e le piattaforme online. Dobbiamo non solo essere capaci e perfetti, ma anche essere presenti in ogni luogo e iniziativa, pena il rischio di essere esclusi da opportunità gratificanti soprattutto per noi stessi. La paura di essere tagliati fuori, definita nel gergo internazionale “FOMO” (Fear Of Missing Out), rappresenta una recente forma di ansia sociale che in questi anni si sta manifestando soprattutto tra i più giovani e che spinge a produrre e consumare performance. Andrea Medici e Maura Gangitano nel loro recente volume “La società della performance” ci accompagnano attraverso questi fenomeni, invitandoci ad allargare la vita anziché allungarla, cercando di rimettere al centro la consapevolezza di spinte culturali che ogni giorno ci rendono sempre più attenti a raggiungere risultati e più distratti a coltivare il valore di una vita personale e relazionale più attenta a ciò che restituisce un senso all’esistenza.

Ci fermiamo qui, in questo primo gomitolo di narrative, che potremmo indubbiamente estendere, assaporando per un attimo quel senso di ineluttabilità che sembra paralizzare e abbattere qualsiasi anelito di speranza. Con un pizzico di nostalgia la nostra mente torna così a quel rassicurante villaggio citato nel proverbio africano. Dove è finito?

 

Ri-narrare la collettività

Forse il problema è alla base. Questo villaggio nella nostra società è solo un mito, o meglio, forse lo è diventato l’immaginario che stiamo creando e alimentando: non sempre siamo capaci di ammetterlo, ma tra amarcord e desiderio di conforto vorremmo semplicemente replicarlo all’infinito dandolo per scontato, senza però confrontarlo rispetto alle evoluzioni sociali e psicologiche più attuali. Potrebbe però esserci una via di uscita. Forse abbiamo bisogno di ricostruire innanzitutto il senso, nel modo di stare e vivere la collettività. Abbiamo probabilmente bisogno quindi di reinventare quel “villaggio” a partire da alcune riflessioni e processi. Non ne esiste uno perfetto e nemmeno ci sarà mai; il concetto di perfezione è in un certo qual modo antitetico alle dinamiche sociali, spesso caratterizzate da aleatorietà, spontaneità e forze contrastanti. Al suo posto preferisco il concetto di “sufficientemente possibile” che, a mio avviso, inquadra maggiormente la reale complessità e approssimazione artigianale della vita delle persone.

In questi anni diversi gruppi, progetti e collettività hanno dato vita a forme più o meno estese di questi nuovi villaggi, spontaneamente o su impulso di politiche o finanziamenti pubblici o privati. Sono esperienze che sto incontrando direttamente o indirettamente nella mia professione in diverse parti di Italia e che stanno provando a diverse geometrie a reinventare villaggi possibili. Quali sono le loro caratteristiche? In questo contributo provo in parte a raccoglierle, iniziando a descriverle.

 

  1. Nel villaggio ci sia allena con parole e simboli ospitali

Nel nuovo villaggio gli abitanti possono non soltanto ricevere passivamente, ma diventano artefici di un nuovo modo di comunicare. Le parole difficilmente sono neutre, ma hanno un potere nel favorire o scoraggiare comportamenti e atteggiamenti. Il filosofo del linguaggio John Searle chiama questo potere “perlocutorio”, ossia capace di produrre degli effetti nel contesto. È per questo che la scelta è su parole che possono attivare, o far sentire attive le persone.

Vediamo gli individui spesso attraverso i loro bisogni e meno nella loro capacità di esprimere forme di bellezza. Secondo il “capability approch” che ha avuto origine con i primi articoli di Amartya Sen e di Martha Nussbaum negli anni ‘70, il benessere dovrebbe essere inteso in termini di capacità e funzionamento delle persone, grazie alle azioni che possono raggiungere mettendo in campo le aspirazioni e le loro competenze. In questo villaggio le persone partono da sé, nello stilare un elenco di ciò che si sentono capaci di fare e poi aggiungono ciò che amano fare, anche se sentono di esserne meno competenti. Hanno imparato che la passione per qualcosa scuote l’inerzia e molte possibilità. Successivamente queste persone fanno lo stesso con le altre. Pensano a chi incontrano nella comunità, per lavoro, volontariato o nella vita personale. Con loro provano a mettere in gioco un “ascolto ospitale”.

“Ascolto” è una parola spesso pretesa e abusata, avvolta da tratti retorici e quasi mitologici, che purtroppo non sempre esploriamo nei suoi dettagli. È un processo che richiede di essere vissuto e progettato. Secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han “senza prossimità, senza ascolto non si forma alcuna comunità” (Han, 2017), considerando pertanto l’importanza di “fare spazio” alla libertà dell’altro, lasciando raccontare le ragioni delle proprie scelte, dei comportamenti e soprattutto dei suoi punti di vista, spesso non immediatamente comprensibili. L’ascolto è contemporaneamente uno spazio pieno e vuoto: si riempie di curiosità, emozioni, parole e silenzi e si libera di giudizi, preconcetti e moralismi. Lo spazio dell’ascolto è anche simbolico, ricco non solo di parole, ma anche di espressività, immagini, suoni e pratiche. Per ascoltare occorre perciò un’azione volitiva, che metta in discussione noi stessi, il nostro modo di esprimerci e la seduzione di rendere perentoria la nostra visione del mondo e dei problemi. Si diventa custodi delle parole che ci vengono affidate, assumendoci tacitamente un compito impegnativo, ma nello stesso tempo arricchente. È una pratica che va allenata, analoga a molte discipline sportive e che richiede concentrazione, tempo, perseveranza e obiettivi definiti.

 

  1. Nel villaggio il senso di collettività non è mai dato per scontato

Già alle porte del nuovo millennio il sociologo Robert Putnam pubblicò un celebre saggio dove portò all’attenzione alcune pratiche sociali e ludiche, quali ad esempio il gioco del bowling negli USA, che si stavano progressivamente privatizzando, riducendo il capitale sociale delle persone (Putnam, 2000). Dal fruire di contenuti in streaming, al gaming online, sino al diffondersi di dispositivi che sfruttano i sempre più straordinari algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, quest’ultimo decennio ci sta allenando a sentirci sempre più a nostro agio in microbolle relazionali, che tuttavia più o meno consapevolmente conservano il desiderio pallido e perduto di una vita comunitaria. Di un parere analogo è il corto d’animazione realizzato da Alain de Botton, edito dalla rivista “Internazionale”[1], che esprime la nostalgia di un senso tribale, antico e connaturale alla vita umana. La conseguenza di questo smarrimento è la presunzione di una sua inutilità, e la derivante nascita di forme iperindividualiste, di atteggiamenti mirati ad un’indefessa ricerca di relazioni sempre più ideali e il moltiplicarsi di speranze di cambiamento sempre più intime e meno condivise.

Nel villaggio re-inventato si è compreso che è necessario risvegliare un senso collettivo ancor prima di generare azioni e progetti condivisi, per poter apprezzare le autentiche motivazioni e rafforzare così le basi per la messa in condivisione di energie sociali. Il motto è “prima di fare è importante recuperare il piacere di stare”, insieme, anche nelle cose più semplici.

 

  1. Persone, gruppi e organizzazioni stanno sviluppando collaborazioni ad alta intensità solidale e creativa

Durante gli anni ’50 del secolo scorso Gordon Allport, uno psicologo sociale, elaborò una teoria che divenne per molti operatori un utile spunto di riflessione, la cosiddetta “teoria del buon contatto”, studiata a partire dalla diffusione di pregiudizi tra persone appartenenti a gruppi diversi. Più recentemente in un’esperienza condotta in Germania in previsione delle elezioni del 2017, sono state riunite circa 12.000 persone con opinioni politiche opposte. La ricerca, supervisionata dall’economista comportamentale Armin Falk, ha mostrato come l’allestimento di occasioni di confronto e dialogo tra le persone ha consentito di ridurre la polarizzazione di opinioni, diminuendo inoltre il sentimento di odio vissuto nei confronti delle persone con visioni opposte[2].

Per poter mettere in moto il “buon contatto” occorre pertanto curare il contesto di incontro delle persone, facendole interagire nel rispetto reciproco, individuando obiettivi comuni e geometrie di collaborazione. In questo senso diventa importante il riferimento alle passioni delle persone e all’opportunità di allestire situazioni in cui ci si possa incontrare presentando qualcosa di sé e provando ad amalgamarlo con altri.

Nel nuovo villaggio gli abitanti hanno provato con diverse attività, dallo sport, alla musica, alla cucina, provando a creare situazioni in cui le diversità di genere, provenienza ed età potessero trovare forme di scambio.

Per affrontare problemi sempre più complessi le organizzazioni hanno stabilito di raccogliere e organizzare il potenziale e l’interesse attorno a diversi temi per rafforzare la capacità di intervento. Si sono così sviluppate “reti ad alta intensità solidale e creativa”, incontrandosi periodicamente, conoscendosi e mostrando ciò che ciascuno stava già realizzando, per poi scegliere alcune prime attività realizzabili in sinergia. La conoscenza reciproca ha inevitabilmente accolto momenti di divergenza e incomprensione, che hanno richiesto di sospendere l’azione, dedicarsi al confronto e all’astensione dal giudizio, per poi rimettere in gioco l’opportunità di affrontare nuovamente le sfide, abbandonando in molte situazioni le convinzioni e le direzioni precedenti. In alcuni momenti è stato prezioso un supporto di qualcuno che aiutasse a riequilibrare parole e poteri.

Per chiarire e ricordare il valore di questa collaborazione è stato elaborato un patto periodico, oggetto di continua e ciclica rivisitazione. Parimenti hanno svolto un ruolo importante la creazione di politiche ad “alta scommessa creativa”, che hanno permesso di avviare e sostenere questi circuiti virtuosi, anche dal punto di vista economico, restituendo alle persone il potere di agire e decidere.

Nel corso degli anni qualcuno ha abbandonato, qualcuno è ritornato, nuove realtà si sono avvicinate. C’è chi ha dovuto fare i conti con ferite pregresse, chi ha avuto modo di rielaborarle con i presenti, chi ha dato supporto e motivazione nel vivere il presente e pianificare il futuro.

Si è sperimentato molto, anche se non sempre si è raggiunti immediatamente ai risultati desiderati, ma grazie all’energia trasmessa da questa rete, le persone hanno trovato maggior motivazione nel cercare nuove strade o nel ripercorrere le stesse, ma con un nuovo sguardo. Hanno imparato dalle proprie pratiche pensando che per reinventare il villaggio occorresse generare anche più forme e modi di stare in rete. Alcune di queste hanno funzionato perché più leggere e meno impegnative soprattutto per chi di tempo ne disponeva meno, coinvolgendo inoltre diversi luoghi della quotidianità delle persone, dai negozi, ai bar ai luoghi della cultura.

 

  1. Nel villaggio c’è uno spazio per l’inedito

Nel 2020 il mondo intero è stato accomunato da un evento che ha segnato inequivocabilmente la vita delle persone. Abbiamo pensato che il Covid potesse stravolgere completamente il nostro futuro, anche se in realtà molte delle nostre attività hanno ripreso il loro corso.

Nel villaggio, tuttavia, non solo si sono sviluppate iniziative per fare memoria di ciò che è accaduto, ma si è provato a mettere in condivisione ciò che quel periodo ha insegnato. Ad esempio, l’importanza di dare forma ad un luogo “vuoto” nei propri progetti personali o professionali: è lo spazio dell’inedito, della generatività, della capacità di tollerare l’imprevisto come opportunità di trasformazione. Accogliere la flessibilità di tempo e la mobilità di persone che per lavoro o per progetti di vita personale entrano ed escono dai suoi confini è diventato non tanto un problema, ma una condizione di partenza. Si sono generate appartenenze più contingenti spesso dettate dai tragitti di vita, ma intensamente importanti per le persone stesse. Hanno mosso pensiero, emozione ed azione, permettendo alla gente di poterle sentire proprie e diffonderle anche in altri luoghi, compatibilmente con il proprio tempo.

Anche i luoghi fisici hanno cercato di tradurre questa ispirazione attraverso i loro arredi e la possibilità di essere co-vissuti. È stato progettato uno spazio per il “caos”, dove poter mettere in moto la preoccupazione presente e sollecitare l’immaginazione, provando ad evocare più scenari possibili. La narrativa futura è diventata una risposta a quelle tensioni narrative citate in introduzione, situandosi così nel frangente di quelle che Paolo Jedlowsky chiama “l’orizzonte delle attese” o “futuri presenti” (Jedlowsky, 2017); forme non passive, ma ricche di progetti, sentimenti, emozioni che dirigono e motivano l’agire personale e collettivo. I giochi di immaginazione sono diventati così spazi prodigiosi e creativi, che hanno aiutano a miscelare le preoccupazioni odierne, prendendone le distanze e recuperando l’anticamera di speranza abitata dai desideri, da ciò che scalda il cuore e da ciò che rende umani.

 

Due sostantivi e due verbi per iniziare a re-inventare

In conclusione, ci chiediamo se sia proprio vero che il villaggio serva solo per far crescere un bambino e se quel celebre proverbio possa essere ancora attuale. A parer mio forse serve innanzitutto ripensare ad un villaggio, non tanto per far crescere le generazioni più giovani, ma specialmente per far maturare la consapevolezza di sé stesso.

Due sostantivi da mettere in bisaccia prima di iniziare il viaggio e che forse per molte e molti saranno già noti: semplicità e sagacia. Il villaggio per essere tale avrà bisogno di proposte alla portata di tanti, comprensibili e soprattutto accessibili. Semplicità non significa ingenuità. Il villaggio è un sistema complesso, fisico e immateriale, animato da dinamiche relazionali che hanno bisogno di essere colte, apprese e di essere anche progettate e pensate con competenza ed esperienza per evitare frustrazione o sentimenti di inutilità.

Due verbi per iniziare a camminare: abbandonare e trasformare. Il primo richiede un forte investimento personale e collettivo, che si traduce nell’elaborazione di un lutto, ma anche nel fare i conti con la sensazione di tradire un’eredità che sentiamo di dover custodire e proteggere. Il secondo implica mettere in moto fatica e creatività, nonché trovare modalità per tutelarsi dalle eventuali frustrazioni provocate dall’apparente inefficacia dei nostri interventi, spesso più lenti nel generare risultati rispetto alle nostre attese. Necessita inoltre di accogliere anche spazi di divergenza, nei quali comprendere innanzitutto che confliggere non è sinonimo di annientamento e umiliazione, ma di esplorazione degli altri e di se stessi, anche di ciò che è nascosto tra le parole. Abbandonare e trasformare: entrambi i verbi raccolgono dolore ed esprimono stupore.

Una celebre citazione del chimico e fisico francese Antoine-Laurent Lavoisier, “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma” ha accompagnato le nostre ore da studenti acquistando ora particolare senso anche in questa opera di rinnovamento della collettività. Forse abbiamo bisogno “solamente” di trasformare e di ripartire da ciò che abbiamo intorno per costruire qualcosa di diverso, attraversando quel senso di libertà e soddisfazione che ci contraddistingue come genere umano e che ci lega da secoli: l’arte di essere e poter fare e il desiderio relazionale.

 

 

Bibliografia

 

Albanesi, C., Boniforti, D., Novara, C. (2019) Comunità imperfette: dalle dinamiche disgregative al decision making comunitario. Bologna: Alma Mater Studiorum – Università di Bologna.

Colamedici, A., Gancitano, M. (2022). La società della performance. Come uscire dalla caverna. Roma: Tlon

Han B. C. (2017), L’espulsione dell’Altro, Milano: Nottetempo.

Hertz, N. (2021). Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni. Milano: Il Saggiatore.

Jedlowski, P. (2017). Memorie del futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali. Roma: Carocci.

Lavanco, G., Presentazione del numero. Comunità, addio? in “PSICOLOGIA DI COMUNITA’” 1/2018, pp 5-6, DOI: 10.3280/PSC2018-001001

Mullainathan, S., Shafir, E. (2013). Scarcity: Perché avere poco significa tanto. Milano: Il Saggiatore.

Niessen B. (2023). Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo. Milano: UTET

Putnam, R. D. (2000). Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community. New York: Simon & Schuster. ISBN 0-7432-0304-6.

Searle, J. (2000). Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale, Milano: Raffaello Cortina.

Simmank, J., Improving Social Cohesion, One Discussion at a Time, intervista pubblicata su Zeit Online, 15 agosto 2019.

 

[1] https://www.internazionale.it/video/2020/03/13/solitudune-senso-di-comunita

[2] Intervista pubblicata sul periodico di informazione tedesco Zeit Online: “Germany Talks”: Improving Social Cohesion, One Discussion at a Time | ZEIT ONLINE