COMUNITÀ DISTANZIATE

31-03-2020

RIFLESSIONI E PRATICHE DI RESISTENZA RELAZIONALE, SOSTEGNO RECIPROCO E SOLIDARIETA’ COLLETTIVA NELL’EPOCA DEL DISTANZIAMENTO SOCIALE 

Per contrastare la diffusione della pandemia di covid-19 svariati milioni di persone in tutto il mondo sono costrette a adottare uno stile di vita caratterizzato dal cosiddetto «distanziamento sociale». Oltre agli evidenti (e drammatici) problemi sanitari ed economici si stanno cominciando a studiare gli effetti psicosociali, politici e culturali di questa imponente (e imprevista) situazione di isolamento di massa, un evento che mostra, in tutta la sua spettacolarità, la nostra condizione di fragilità. In un certo senso potremmo dire, con le parole del filosofo Pierre Zaoui, che il covid-19 “è l’esperienza al tempo stesso di uno solo, di alcuni e di tutti, ed è abbondantemente impossibile confinare a lungo il suo senso a una sola e unica coscienza o a un solo e unico corpo”.

La pandemia ci accomuna tutti (anche se non in egual modo) per la sua natura ibrida (cioè attiva e passiva nello stesso tempo), ma soprattutto perché la malattia è l’esperienza ancestrale della vita, cioè “l’esperienza più comune, più pre-individuale e più pre-personale, quella che ci lega ancora ai primi uomini” (Zaoui, 2016). La portata collettiva di quanto stiamo vivendo in termini di salute pubblica, emerge con forza dalla lettera inviata da un gruppo di medici italiani alla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine, una riflessione circostanziata che esordisce con una precisa indicazione: “in una pandemia, l’assistenza centrata sul paziente è inadeguata e deve essere sostituita da un’assistenza centrata sulla comunità” (NEJM, 2020).  Ovviamente i punti di vista degli esperti sono variegati e si procede per ipotesi, anche perché ci troviamo di fronte a un’esperienza che, per dimensioni e diffusione, non ha precedenti nella storia recente.

Per quanto riguarda la dimensione psico-sociale sappiamo che diverse ricerche condotte sulla quarantena (in particolare nelle epidemie di Sars-Cov e Ebola) indicano una serie di probabili effetti sulla salute mentale: dai sintomi del disturbo post traumatico da stress al disorientamento, dall’angoscia alla depressione. Effettivamente, se non viene scelto dalle persone, l’isolamento prolungato è una condizione innaturale che incide sulla qualità della vita e metta a dura prova la capacità umana di cooperare (Miller, 2020). Sappiamo peraltro che gli essere umani sono caratterizzati da una forte capacità di adattamento. Una intensa esperienza di malattia (propria o altrui) ha la capacità di rendere obsolete le forme di vita (individuale e sociale) abitate fino a quel momento e induce a rivalutare le priorità della vita.

Numerose ricerche condotte nell’ambito della psicologia evolutiva più recente hanno evidenziato con forza e chiarezza le raffinate capacità di mutua collaborazione e di altruismo che caratterizzano la nostra specie. Per affrontare efficacemente una situazione pandemica abbiamo bisogno di attingere appieno a queste capacità, facendo leva su quella che l’antropologo Curtis Marean ha definito iperprosocialità (Marean, 2015). È esattamente questo di cui oggi abbiamo bisogno, per curare e assistere chi è malato e, ancor di più, per contenere il contagio e promuovere la salute (fisica e mentale) della moltitudine degli isolati. Siamo in grado di raccogliere questo incoraggiamento nonostante trent’anni super-individualismo, competizione esasperata e solitudine diffusa? Nessuno può dirlo con certezza.

Alcuni anni fa  il filosofo Roberto Esposito ci aveva già esortato a sfuggire da una visione ingenua e benevola della «comunità», mostrando lucidamente quanto ogni communitas può finire per sviluppare tensioni immunitarie (immunitas) verso l’Altro da sé (il diverso, lo straniero, il malato) (Esposito, 2002). Nulla ci assicura che l’impatto della pandemia nelle nostre comunità locali finisca per produrre “un dilagante desiderio di immunitas” tanto comprensibile per l’enormità dell’evento (con il correlato di paure, angosce e bisogni di rassicurazione che porta con sé) quanto pericoloso per la distruzione sociale che può comportare, sul piano democratico ed esistenziale.

Questa riflessione c’induce a reinvestire in una prospettiva di sviluppo di comunità capace di vivere il necessario distanziamento sociale con modalità protettive e nel contempo solidali, facendo leva responsabilità sociale e cooperazione e solidarietà. Le scienze umane, ad esempio, indagano da tempo le strategie di coping, cioè quella variegata serie di meccanismi messi in atto dalle persone, più o meno consapevolmente, per fronteggiare i problemi che s’incontrano nella vita e tollerare lo stress ad essi correlati, sia a livello individuale che di gruppo (o familiare). Nello specifico dell’esperienza che stiamo vivendo sono ulteriormente interessanti le strategie di coping sociale (cioè basate sul supporto reciproco e il mutuo-aiuto) e di coping centrato sul significato (dove ci si concentra sui processi di apprendimento generati dall’esperienza stressante) Ma non solo, riteniamo che sia il momento per sostenere ogni sforzo che vada nella direzione di coltivare al massimo grado la solidarietà, nelle forme compatibili con la situazione di crisi e le misure di distanziamento sociale.

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    Con il progetto #ComunitàDistanziate intendiamo censire, studiare e diffondere esperienze pratiche (attivate da istituzioni, organizzazioni, gruppi o singoli cittadini) che promuovono strategie di coping (individuale e sociale) tese a mitigare il peso dell’isolamento sociale e sviluppano relazioni di comunità caratterizzate da altruismo, mutuo-aiuto, prosocialità e solidarietà collettiva, in particolare a favore dei soggetti più fragili (anziani, bambini, disabili). Per segnalare un’esperienza scrivere a comunicazione@retemetodi.it

    Le esperienze raccolte saranno recensite e pubblicate sulla nostra pagina Facebook e sulla pagina del sito dedicata